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Chi sei lo decidono gli altri. O almeno lo fanno con Imane Khelif

Chi sei lo decidono gli altri. O almeno lo fanno se sei Imane Khelif

Il politically correct è una coperta di Linus. E’ lì, ai piedi del letto, e ogni tanto allunghiamo una mano. La sistemiamo un pò. E quando qualcosa ci punge la lingua — un commento cattivo, in genere- ce la poggiamo sulle gambe. “Eh, ma con questo politically correct ormai non si può più dire nulla”.

Ci dimentichiamo – ci conviene dimenticare – la sottile linea che divide il poter avere un’opinione con il voler avere un’opinione solamente quando si tratta di limitare la libertà di qualcun’ altro. Noi dobbiamo essere liberi di dire ciò che vogliamo; ma con le nostre parole, poi, possiamo limitare gli altri nell’essere nient’altro che sé stessi. Un pò troppo semplice così, no ? Non può, e non deve, funzionare così. La libertà non è e non sarà mai un qualcosa di astratto che può essere concessa solamente ad una cerchia ristretta di persona. La libertà è uguale per tutti. E’ di tutti.

Imane Khelif è solo l’ennesimo nome in una lista infinita di vittime di un’ideologia che fonda le sue basi sulle limitazioni altrui. Il caso olimpionico, per di più, si basa su assiomi dai contorni sfocati, non definibili.

E’ una donna trans, ha detto qualcuno all’inizio. E’ un uomo che tira pugni ad una donna e noi lo accettiamo, ha detto qualcun’ altro. Un inseguirsi di titoli click bait, commenti provocatori ed etichette basate solo su pregiudizi personali; il tutto culminato con il ritiro dopo 46 secondi dall’inizio del match dell’italiana Angela Carini. Il peggio che potesse succedere per infiammare ancora di più una polemica che non aveva né senso di esistere né tanto meno era veicolata da informazioni, perlomeno, corrette.

Basterebbe questo, a volte. Fermarsi un secondo, respirare, e iniziare a cercare informazioni, quante più possibili, per farsi un’idea chiara, veritiera ed oggettiva della situazione. Guardare i fatti, solo quelli, e non farsi comandare dalla paura del diverso, dalla paura che, qualcuno lì fuori, abbia come unico obiettivo quello di fregarci.

Una donna è stata umiliata e si è rialzata con la forza che contraddistingue noi donne, ha detto qualcuno riferendosi alla Carini. Ma di donne, su quel ring, ce n’ erano due. Ed una delle due sono giorni che sta assistendo, a livello mondiale, al processo riguardante la sua identità di genere.

Khelif nasce in un paese in cui l’omosessualità è punita con il carcere. Partecipa ai giochi olimpici di Tokyo ed è sconfitta ai quarti di finale, lascia le olimpiadi così come è arrivata: in punta di piedi. Nessuna polemica, nessuno le contesta la partecipazione.

Partecipa, poi, nel 2022 ai Mondiali, dove viene battuta dall’irlandese Amy Broadhurst. Ancora una volta nessuna contestazione. E’ un incontro giusto, come detto negli ultimi giorni dalla stessa Broadhurst: “Personalmente non penso che Khelif abbia fatto niente per imbrogliare. Penso che sia nata così, ed è fuori dal suo controllo. Il fatto che sia stata battuta da nove donne finora dice tutto”.

I problemi, almeno per le polemiche degli ultimi giorni, riguardano la sua esclusione ai Mondiali del 2023. E’ stato tutto ridotto ad un semplicistico lì l’hanno esclusa. Ma la situazione è un po’ più complicata di così.

L’IBA (la federazione internazionale di boxe) che nel 2023 ha deciso di escludere Khelit poco prima della finale — ma che l’aveva ammessa a partecipare alla competizione- non è più riconosciuta dal COI ( il comitato internazionale olimpico). Questo a causa di una serie di scandali di corruzione. Da allora la sede dell’IBA si è spostata in Russia, ha come presidente Umar Kremlev, un imprenditore molto vicino a Vladimir Putin, e ha come finanziatore principale la compagnia petrolifera russa. Quando nel 2023, prima Khelit è stata ammessa alla competizione per poi essere estromessa una volta raggiunta la finale, il suo posto è stato preso da un’atleta russa. La situazione è decisamente più complicata di così.

Lo stesso COI negli ultimi giorni si è visto costretto a rilasciare un comunicato stampa, in cui in prima battuta ha nuovamente condannato le decisioni che sono state prese nel 2023, per poi dare la loro solidarietà all’atleta algerina. Ribadendo, per l’ennesima volta, come la stessa rispetti ogni requisito per poter partecipare ad una competizione di boxe femminile.

Khelit non è una donna trans. E’ una donna che soffre di iperandrogenismo, e ciò significa che i valori di testosterone nel suo corpo sono più alti del normale. Ma sono comunque sotto la soglia stabilita dal comitato olimpico per accedere alle gare femminili. Perchè Imen Khelit è una donna. E’ una donna che ha una malattia che tiene sotto controllo, ma è una donna. Punto.

E’ una donna muscolosa (fa boxe d’altronde), ha un naso pronunciato e non rientra nello spettro della canonica bellezza. E forse il problema nasce proprio qui. Siamo donne solo quando rientriamo nell’ incasellamento di stereotipi ben definiti, dove non ci allontaniamo da ciò che gli altri si aspettano e pretendono da noi: sorriso smagliante, corpo magro, labbra tinte di rosso e sguardo accattivante.

D’altronde, la stessa Presidente del Consiglio, insieme a diversi Ministri, si sono dichiarati indignati per questa vicenda. Woman power, hanno gridato all’unisono. Difendiamo le donne, hanno ripetuto. Si sono fatti portavoce del più becero dei femminismi, quello che attacca ed aggredisce altre donne che non rientrano nell’immaginario patriarcale. Difendiamo le donne solo quando si tratta di attaccare altre donne.

Khelit è la vittima di un mix perfetto di incastri tra stereotipi patriarcali, politically correct e femminismo becero. Se c’è una vittima in tutta questa storia non sarà la democrazia sempre più a rischio dalla politica woke; ma una ragazza di 25 anni che si è ritrovata negata la sua stessa identità.

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